Da quando siamo al centro dell’era digitale, quindi su per giù da cinque anni a questa parte, l’intelligenza artificiale è diventata il fulcro di un dibattito acceso sul futuro del lavoro. Continuiamo a commettere gli stessi errori quando parliamo di AI e questo fa sì che non riusciamo a focalizzare dove sta il problema. La lamentela che più spesso si sente è che ci ruberà il lavoro. Ecco dunque che voglio spiegarvi come questo non succederà mai e perché.
Il problema non è l’intelligenza artificiale, così come non lo è qualsiasi altra disciplina scientifica
Ted Sarandos, Co-CEO di Netflix, ha recentemente affermato: “L’AI non ti ruberà il lavoro, ma la persona che la usa bene potrebbe farlo“. Questa dichiarazione merita un’analisi approfondita, poiché offre una prospettiva unica sul rapporto tra tecnologia e occupazione. In realtà, leggendola, potremmo finire qui il discorso ma è bene andare fino in fondo.
In primo luogo, è essenziale comprendere che l’AI non è un’entità autonoma con un’agenda propria. È uno strumento, potente e versatile, ma pur sempre uno strumento. Come ogni tecnologia che l’ha preceduta – dalla ruota alla stampa, dall’elettricità a internet – l’AI è il risultato dell’ingegno umano e il suo impatto dipende da come viene utilizzata. Quindi invece di puntare il dito dovremmo chiederci se siamo noi ad averne paura perché non siamo in grado di salire su questo treno che corre velocemente.
La vera sfida, come suggerisce Sarandos, non è la tecnologia in sé, ma la capacità umana di adattarsi e di sfruttarla a proprio vantaggio. Questo concetto ribalta la narrativa comune dell'”uomo contro la macchina”. Non si tratta di una competizione, ma di una collaborazione. L’AI può automatizzare compiti ripetitivi, analizzare dati complessi in tempi record e persino generare contenuti creativi. Ma non può sostituire l’intuizione umana, l’empatia, il pensiero laterale e la capacità di prendere decisioni etiche in situazioni ambigue.
Paradossalmente ciò che manca a ogni prodotto basato sull’intelligenza artificiale è proprio l’intelligenza. Come è possibile? Riprendendo un passaggio del libro Machina Sapiens di Nello Cristianini, si dà questa definizione di intelligenza: l’abilità di eseguire dei compiti in situazioni impreviste. Ecco, capirete sa soli che un qualsiasi modello generativo non è in grado di adattarsi a questo genere di situazioni.
Prendiamo l’esempio dello stesso Netflix. L’azienda utilizza algoritmi di AI per personalizzare i consigli di visione, ottimizzare la produzione di contenuti e migliorare l’esperienza utente. Tuttavia, sono ancora gli esseri umani a decidere quali storie raccontare, come produrle e come commercializzarle. L’AI è un supporto, non un sostituto.
Questa dinamica si estende a molti altri settori. Nel campo medico, si può diagnosticare malattie con precisione impressionante, ma è il medico che decide il trattamento, considerando il contesto unico di ogni paziente. Nel marketing, l’aiuto di questa disciplina può segmentare il pubblico e ottimizzare le campagne, ma è il marketer che deve capire le sfumature culturali e le tendenze emergenti.
Ecco cosa ci ruberà il lavoro
Il vero rischio, quindi, non è l’AI in sé, ma l’immobilità professionale. Coloro che rifiutano di imparare a lavorare con l’AI, o peggio, la temono e la evitano, rischiano di essere superati da colleghi più adattabili. Questo non significa che tutti debbano diventare programmatori o data scientist. Significa piuttosto comprendere come questa novità può amplificare le proprie competenze uniche: in fondo anche un meccanico deve diventare studiare la meccatronica se ha intenzione di restare sul mercato.
Tuttavia, questo adattamento solleva questioni etiche e sociali cruciali. L’accesso all’AI e la formazione per utilizzarla non devono diventare un nuovo divario digitale che aumenta le disuguaglianze. Aziende, governi e istituzioni educative hanno la responsabilità di garantire che i benefici dell’AI siano distribuiti equamente.
Infine, mentre ci adattiamo non dobbiamo perdere di vista ciò che ci rende umani. La creatività, l’empatia, il pensiero critico e l’etica dovrebbero essere al centro dei nostri sistemi educativi e delle nostre culture aziendali. Queste sono le qualità che l’AI può potenziare, ma non replicare.