Musical, non musical. Necessario, non necessario. Bello, brutto. Coinvolgente, noioso. Tutte caratteristiche di un film che vuole esprimersi senza la pretesa di essere accettato. Joker: Folie à Deux è una sfida, una sorta di anti-sequel che ha generato tanta insoddisfazione, dovuta con probabilità all’inversione del protagonista. La rivoluzione sembra dietro l’angolo, la speranza sopravvive anche al rinnegamento di Arthur, quando confessa di non essere l’antieroe che sembra destinato a diventare. E’ in quel momento che un’autobomba si infrange contro il tribunale, consentendogli di scappare verso le sue uniche e reali esigenze: il contatto umano, l’amore, che lo respinge a sua volta.
E’ un susseguirsi di incomprensioni, uno strato che separa il protagonista dal resto del mondo e che lo spinge a dei comportamenti collerici che fanno parte di chi è veramente solo e cerca riscatto. Questo film decostruisce il mondo dello spettacolo come metafora dell’ipocrisia sociale, continuando il lavoro lasciato aperto dal titolo predecessore. Tuttavia, la maggioranza ha deciso il tonfo: Joker 2 ha un carattere pleonastico, si legge sul web. Ma sarà davvero così o ci sfugge qualcosa?
Joker: Folie à Deux, cosa ci nascondi?
Esiste, forse, un tassello mancante lasciato dagli strascichi di un’opera talmente apprezzata da oscurare del tutto qualsiasi difetto o punto debole. Eppure, nemmeno al primo titolo dedicato al criminale di Gotham sono mancate le critiche. Una di queste, era l’occasione sprecata di parlare delle cosiddette disabilità invisibili. Arthur Fleck ne è evidente rappresentante finché la pellicola non sterza verso l’iraconda follia del personaggio dei fumetti. Nel finale del primo film, infatti, assistiamo a un crescendo che trova il suo momento più alto nel caos che si scatena in città. Cosa che non avviene in questo sequel e forse, è giusto così.
In questa seconda opera, la narrazione verte sul processo di Fleck che fa da assetto per la destabilizzazione del protagonista. La strategia dell’avvocata è puntare tutto sull’infermità mentale: “tu non sapevi cosa stavi facendo“, come pronuncia la legale, è la ricetta per un disastro mentale assicurato dove lo spirito di Arthur subisce una grave violazione.
Si, perché il Joker di Todd Phillips è sbagliato, non nel senso narrativo del termine ma dell’essere di troppo e fuori posto. Non è un Villain, piuttosto la vittima di un sistema che non lo ritiene abbastanza opaco da individuarne le criticità. Dunque, la domanda drammaturgica da porsi non è tanto “riuscirà a sopravvivere?” quanto piuttosto “riuscirà mai a essere visto veramente?“.
Arthur non ha una seconda identità, è un essere umano fragile, debole e impaurito. Una folla di esaltati lo osanna per i suoi non discutibili errori, la difesa lo spinge verso un altro estremo: l’ammissione delle proprie colpe per essere un giocattolo rotto. Eppure, la rivoluzione sembra arrivare da un momento all’altro. Lee Quinzel, l’Harley di Lady Gaga, fa divampare ancora il fuoco di rivalsa che abbiamo visto in Arthur soprattutto nel primo film.
Tuttavia, si rivela semplicemente un’estremista, qualcuno che vuole utilizzare la storia del protagonista per una fantasia. Anche in questo caso assistiamo a una microscopica simulazione della società, lo spettacolo decantato nel brano The Enterteinment che rafforza sostanzialmente la distanza tra le folle, sia amichevoli che ostili, e il protagonista vittima della strumentalizzazione dei media.
Everything that happens in life
Can happen in a show
You can make ‘em laugh, you can make ’em cry
Anything, anything can go
Colui che più empaticamente si avvicina ad Arthur, Puddles, è infatti il soggetto che rimane più danneggiato dall’intera vicenda, non tanto per aver assistito a due brutali omicidi ad opera del collega, quanto più al fatto di aver perso un amico, l’unico a trattarlo dignitosamente come da lui affermato nel momento di maggiore climax del film, tra le lacrime di entrambi.
In effetti, c’è qualcosa che non torna, e si tratta della malcelata tragedia del protagonista. Per Arthur non esiste una seconda identità, lui vive la sua vita come qualcuno che è sempre fuori posto o peggio, che risulta scomodo. Il Joker di Todd Phillips è più martire che carnefice, cosa che consente di vedere la pellicola in maniera più metanarrativa. Non c’è una svolta in arrivo o un’ascesa verso un finale rivelatorio ma solo la consapevolezza di un dramma che ci insegna quanto sia precaria l’attenzione verso individualità fragili come Joker, il cui dolore lo spinge a difendersi con le motivazioni sbagliate in un mare di ipocrisia e cecità voluta. Procedimento che non può che svilupparsi attraverso un epilogo non felice.
Una chiave di lettura sicuramente atipica rispetto alle recensioni in giro sul web ma che sintetizza, a mio modo di vedere, la volontà di fare un po’ di luce sull’argomento più escluso da Hollywood (e non solo). Questo si che meriterebbe un po’ di inclusione.
Conclusioni
Molto gradita la direzione artistica e la fotografia del film, eccezionali anche se condite da un ritmo non sempre calzante forse dovuto alla presenza di tantissimi brani. Si apprezza comunque l’uso delle canzoni come rafforzativo degli stati d’animo del protagonista. Ultima ma non meno importante, l’incontro con Vesti la giubba (più conosciuta come Ridi, pagliaccio, un’aria dell’opera Pagliacci di Ruggero Leoncavallo) è a questo punto innegabile, soprattutto con l’entrata in scena di Harley, e non merita la disattenzione della critica internazionale, forse volutamente impreparata a cogliere questa citazione culturale.
Joker: Folie à Deux è un film che va “sentito”, letteralmente. Altrimenti si farà beffa dello spettatore, e va bene così.
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